Aiuto ai ragazzi peruviani in carcere
Cari amici, con il proposito di rendervi sempre più partecipi delle varie attività del progetto peruviano, vorrei raccontarvi dell’aiuto concreto e del sostegno psicologico che portiamo ai ragazzi di strada che, ormai maggiorenni, sono finiti nelle carceri di Lima. Martin, coordinatore ed educatore di strada del progetto, visita circa una volta ogni mese e mezzo i ragazzi che ha conosciuto quando erano piccoli in strada e che poi sono finiti in carcere per furto. L’obiettivo delle visite è quello di portare loro conforto, in spirito di amicizia, perché molti di loro sono completamente soli e non ricevono visite familiari, mentre hanno così tanto bisogno di qualcuno con cui condividere la loro pena, e portare un minimo di aiuto materiale per i beni di prima necessità, come coperte o prodotti per l’igiene personale. Spesso i ragazzi lo chiamano dal carcere anche sul cellulare per parlare un attimo o per affidargli qualche piccola commissione, come avvisare i familiari di qualche incarico. A volte i ragazzi chiedono a Martin di acquistare per pochi soldi i prodotti di piccolo artigianato che riescono a realizzare: braccialetti, soprammobili in carta riciclata, borsette fatte ad uncinetto. Con il suo cuore grande, di solito Martin li prende per regalarli ad amici e conoscenti e poi utilizzare il ricavato per le loro necessità.
Più anni passano in strada, più i ragazzi sono a rischio di delinquere: iniziano con piccoli furti di cellulari, per arrivare gradualmente a rubare auto o assaltare le persone per portafogli e valori. Come progetto siamo favorevoli alla giusta condanna nel caso che i fatti sussistano e siano comprovati, ma vorremmo anche che questi ragazzi trovassero una giustizia equa, invece di marcire per anni prima di ottenere la sentenza perché non hanno da pagarsi un buon avvocato che si prenda a cuore il loro caso, invece di trascurarlo come fanno quasi sempre quelli assegnati loro d’ufficio. L’aspetto che più ci indigna sono comunque le condizioni terribili delle carceri in cui vivono, aggravate dal fatto di non avere un sostegno da parte delle loro famiglie, perché troppo povere o troppo slegate da loro, e quindi di essere abbandonati a se stessi. Il carcere peggiore di tutti, che anch’io ho visitato, è quello di San Juan de Lurigancho, che prende il nome dal distretto di Lima in cui si trova e che, non a caso, è il più popoloso e quello da cui provengono la maggior parte dei ragazzi che in questi anni abbiamo accolto nella casa-famiglia. Il carcere di San Juan è letteralmente un inferno: sovrappopolato, con strutture carenti e fatiscenti, con livelli di corruzione del personale di polizia che arriva a chiedere mazzette ai detenuti, ma anche a chiunque entri a visitare gli interni, speculando sulle già misere risorse di amici e familiari. I posti letto non ci sono per tutti, molti sono costretti a dormire per terra, anche nei corridoi. I detenuti devono pagare mazzette alla polizia carceraria e ai detenuti più potenti per qualunque cosa: per avere un letto, per mangiare, per poter accedere ai pochi laboratori professionali attivati all’interno. Paradossalmente però non è per niente difficile comunicare con l’esterno: pagando, si possono affittare dei cellulari ed effettuare delle chiamate. In questo modo prolificano le attività criminali come lo spaccio di droga. Per questi ragazzi dunque finire dalla strada al carcere significa abbrutirsi ancora di più, invece di incontrare una pena di tipo riabilitativo, con percorsi di vero recupero che li allontanino dal consumo di droga e dalla mentalità di delinquere per sopravvivere.
L’ultima volta che Martin è stato a visitare dei ragazzi in carcere è stato la settimana scorsa. Come sempre mi ha raccontato per telefono delle lunghe code fatte prima di poter entrare, per i controlli di sicurezza e identità, della pena percepita, una volta entrato all’interno, per la profonda solitudine dei ragazzi, che cercano di accaparrarsi la sua attenzione e i pochi beni che ha portato loro dall’esterno. Ogni volta che mi racconta, lo sento provato dal peso di tali emozioni: domenica aveva deciso di fare solo una breve visita, in particolare a un ragazzo di cui è padrino di battesimo e comunione, per ritagliarsi poi un po’ di ore di riposo dopo la faticosa settimana di impegni avuti sia in strada che in casa-famiglia, invece mi ha raccontato che, proprio quando annunciavano il primo turno di uscita dei visitanti a cui bisogna attenersi, uno dei ragazzi accolti in padiglione diverso da quello in cui si trovava Martin lo ha chiamato chiedendogli se poteva dedicargli un po’ di tempo, semplicemente per parlare, ma dicendogli anche che avrebbe capito se non fosse potuto restare. Martin, come già immaginerete, non ha voluto deludere quella richiesta di semplice condivisione umana e così è riuscito a convincere la guardia a farlo passare nell’altro padiglione, perché non permesso, e a dedicare un attento ascolto alla solitudine di quel ragazzo. Solo umanità, nulla di materiale. L’unico commento che sono riuscita a fare a Martin, nell’emozione che sentivo, è stata che anche io non avrei avuto dubbi nel decidere di fermarmi con lui, nonostante la stanchezza. Sentiamo sia come progetto che come persone un profondo dovere morale e umano di continuare con questa piccola azione di aiuto ai ragazzi in carcere, pur nella consapevolezza che non c’è molto spazio per opportunità di vita migliore, ma è per noi importante sapere che con le nostre visite quei ragazzi non si sentiranno completamente soli di fronte all’esperienza emarginante del carcere.
Vi abbracciamo, Alessandra e Martin